Tratto da: A. Mercuri, Quarant’anni di riflessioni Ed. Il mio libro 2015 pp. 93-106
Dai primordi della storia umana e fino a pochi decenni fa quasi tutti lavoravamo coi muscoli, mettendo il cervello al servizio del movimento: contadini, allevatori, soldati, artigiani, boscaioli, pescatori, donne di casa, levatrici, addette ai telai, trascorrevamo il tempo lavorando fisicamente e lasciando la mente a riposo; ora le cose si sono invertite: cervello al lavoro e corpo a riposo. La maggior parte di noi lavora seduto usando solo il cervello magari per otto o più ore al giorno. Ma con quali conseguenze?
L’essere umano si è sviluppato sotto la pressione evolutiva della fatica fisica ma alla cronica fatica nervosa non è abituato.
Purtroppo oggi l’industria, la meccanizzazione, il tornaconto politico e la burocrazia hanno reso ardui i lavori manuali tradizionali come agricoltura e artigianato lasciandoci la possibilità di scegliere solo tra un lavoro sedentario e astratto o un lavoro fisico umiliante e degradante come l’operaio di fabbrica.
Oggi tutti si sentono in dovere di studiare per non restare indietro socialmente, culturalmente ed economicamente. Ma quanti di quei giovani universitari che vediamo poggiati ai muri delle biblioteche con caffè e sigaretta fino a trent’anni amano veramente studiare e svolgere in futuro un’attività lavorativa cerebrale? Io dico davvero pochissimi.
La maggior parte di essi, se oggi ci fosse ancora un’onorevole alternativa ben pagata nell’artigianato o nell’agricoltura, la sceglierebbe subito. E non resterebbero ignoranti perché la vera cultura nasce dall’amore per il sapere, che non ha alcun rapporto con l’addestramento tecnico universitario né con lavori d’ufficio spesso aridi e noiosi.
Anton Cechov nel suo bellissimo e celebre racconto Storia della mia vita ci offre la confessione di un giovane sensibile, onesto e amante della cultura che ama il lavoro manuale e, per questo, viene disprezzato e umiliato dal padre:
<<Che opinione hai di te stesso?>> proseguì mio padre. <<I giovani della tua età hanno già una posizione sociale, si sono affermati; ma tu, guarda, tu sei un proletario, un mendicante […]>> […] << Quando cominci a parlare di lavoro fisico,>> disse con irritazione, <<diventi stupido e banale. Comprendi, ragazzo idiota, testa senza cervello, che c’è in te al di fuori della forza fisica lo spirito divino, un sacro fuoco che ti distingue al più alto grado da un asino o da un rettile, e che ti avvicina alla divinità! Il tuo bisnonno, il generale Polòznev, s’è battuto a Borodino; tuo nonno era poeta, oratore e maresciallo della nobiltà; tuo zio era pedagogo; ed io infine, tuo padre, sono architetto. Tutti i Polòznev si sono trasmessi il fuoco sacro; perché mai tu lo dovresti spegnere così? E lasciamo pure, la ragione sta nel fatto di saper fare altra cosa. Non importa chi, anche un imbecille perfetto o un malfattore, può essere adibito a un lavoro fisico, che è il tipo di lavoro proprio dello schiavo e del barbaro; mentre il fuoco sacro non è appannaggio che di poche persone.>> […] << Restare in una stanza afosa,>> gli dissi, << copiare e ricopiare, fare concorrenza a una macchina da scrivere, è vergognoso e mortificante. Che c’entra qui il fuoco sacro?>>
<< Comunque,>> disse mio padre, <<è un lavoro intellettuale. Ma basta! Finiamola con questa conversazione… In tutti i casi, io ti prevengo che se non entri di nuovo in una amministrazione e continui a seguire le tue disprezzabili inclinazioni, mia figlia ed io ti priveremo del nostro amore. Ti diserederò; lo giuro come è vero Dio!>>
[…] Un tempo avevo sognato una carriera liberale. M’immaginavo maestro di scuola, medico o scrittore; ma non erano che sogni. La tendenza ai godimenti intellettuali, il teatro, per esempio, e le lettere, era sviluppata in me fino alla passione, ma non sapevo se avevo attitudine per il lavoro dello spirito. Al liceo, provavo un’avversione così invincibile per la lingua greca che avevo dovuto ritirarmi dal quarto corso. Dei professori mi prepararono lungamente per il quinto. Infine, entrai nelle diverse amministrazioni, passando la maggior parte del tempo a oziare.
E mi dicevano che quello era lavoro intellettuale… La mia attività nel campo dello studio e del servizio amministrativo, non esigeva tensione di spirito, talento, attitudini personali, elevazione creatrice dello spirito; era una cosa del tutto meccanica. Metto una simile attività al disotto del lavoro fisico, la disprezzo e non credo che possa servire di scusa a una vita spensierata, poiché non è essa stessa che uno degli aspetti dell’ozio. Non ho probabilmente mai conosciuto il vero lavoro intellettuale…1
Sottolineo che non voglio mandare tutti a lavorare manualmente: chi lo fa volentieri ha tutto il diritto di svolgere un lavoro intellettuale. Voglio solo dire che non dovrebbe essere una scelta obbligata e chi si sente portato per un lavoro manuale gratificante dovrebbe poterlo fare.
Cosa dire poi del rapporto tra lavoro manuale e salute mentale? Io sono convinto che, a parte alcune eccezioni, per la maggior parte di noi il lavoro manuale sia benefico perché fisiologico.
Se uno passa otto ore al giorno in ufficio con il neon acceso e un computer davanti e si sente ansioso e depresso cosa devo pensare di lui? Che è un malato da curare? No, penso che sia malato il suo lavoro.
Tuttavia molte persone riescono ugualmente a trovare un equilibrio psicologico in condizioni artificiali ma questo dipende dalla capacità di adattamento e dalla sensibilità di ognuno. Per chi ha tendenza ai disturbi psichici quali depressione, ansia, ossessioni, psicosi, tossicodipendenza oppure semplicemente per le persone molto sensibili alla disarmonia di uno stile di vita innaturale, il lavoro fisico è un vero toccasana.
Più un uomo è sensibile e quindi fragile più è importante che conduca uno stile di vita sano: il lavoro manuale creativo o ripetitivo ma all’aperto fa sicuramente parte di uno stile di vita sano perché connaturato all’uomo; obbliga inoltre a distogliere l’attenzione da sé e questo è benefico perché l’ansia e la depressione ti feriscono dippiù se le ascolti.
Non so se l’avete mai notato ma uscire in giardino a lavorare la terra è il più potente ansiolitico che esista nei momenti d’ansia acuta mentre in un appartamento cittadino si va su e giù per le stanze senza pace, spesso con una sigaretta in mano.
Così Tolstoj in “Anna Karenina”:
Senza capire che fosse e di dove arrivasse, nel mezzo del lavoro a un tratto provò una gradevole sensazione di fresco sulle calde spalle sudate. Diede un’occhiata al cielo mentre affilava la falce. Era sopraggiunta una nube bassa e pesante e venivano giù grossi goccioloni di pioggia. Alcuni contadini andarono a prendere i gabbani e se li misero; altri, come Levin, si strinsero nelle spalle con gioia sotto la piacevole rinfrescata.
Passarono ancora una falciata e un’altra ancora. Passarono falciate lunghe, corte, con erba buona e cattiva. Levin aveva perduto ogni nozione del tempo e non sapeva assolutamente se fosse tardi o ancor presto. Nel suo lavoro adesso aveva cominciato a prodursi un mutamento, che gli procurava un’immensa soddisfazione. Nel mezzo del lavoro lo prendevano momenti in cui dimenticava che cosa facesse , si sentiva leggero, e proprio in quei momenti la sua falciata riusciva quasi altrettanto regolare e buona di quella di Tit.[…]
Il sudore che lo inondava gli dava frescura e il sole, che gli scottava la schiena, la testa e il braccio rimboccato sino al gomito, gli dava vigore e tenacia nel lavoro; e sempre più frequenti gli venivano quei momenti di incoscienza quando si poteva non pensare a quel che si faceva e la falce tagliava da se. Ed erano momenti felici.2
Prendiamo ad esempio un falegname o un contadino tradizionali: fanno un lavoro concreto, hanno un contatto diretto con la realtà perché impegnano i sensi. Il falegname solleva un pezzo di legno, ne avverte già il peso, lo osserva apprezzandone colore e venature, quando lo lavora sente il profumo che emana, quando costruisce un manufatto ha il piacere di vedere e toccare con mano ogni sera i progressi del suo lavoro.
Anche il contadino appaga i propri sensi e li sazia col peso, il colore, il profumo della terra che lavora; si appaga con la magia della vita che nasce per mano sua, col piacere e la soddisfazione di creare da sé il proprio cibo anelando all’antica, grande soddisfazione dell’autosufficienza alimentare.
Il lavoro fisico ha un vero e proprio potere preventivo e curativo sui disturbi mentali perché con la concretezza richiama alla realtà.
Fino agli anni sessanta circa negli ospedali psichiatrici esisteva l’ergoterapia cioè la terapia basta sul lavoro; i malati idonei svolgevano utili lavori tradizionali all’interno della struttura manicomiale e lo facevano con grande piacere ed orgoglio. Vi era il falegname, il fabbro, l’ortolano, il cuoco, il barista, un po’ come ora nelle comunità terapeutiche per tossicodipendenti.
Quando l’ergoterapia è stata bandita perché considerata uno “sfruttamento” non retribuito o una costrizione, i malati mentali che prima lavoravano sono stati lasciati “liberi” di non far niente e sono così riprecipitati nella follia di cui si erano parzialmente liberati lavorando e sempre in nome della “libertà” hanno avuto bisogno di riprendere terapie psicofarmacologiche molto pesanti che durante il lavoro manuale avevano potuto abbandonare.
Il lavoro manuale rispetto a quello intellettuale ha un solido potere preventivo e curativo sulle patologie mentali e questo, molto semplicemente, perché l’essere umano per migliaia d’anni ha fatto lavori fisici e non intellettuali.
Io non dico che la vita moderna sia sbagliata in se, ma dico con certezza che si è discostata troppo dalla fisiologia umana.
I movimenti che dobbiamo compiere per svolgere un lavoro manuale sono antichi, automatici e non stancano dal punto di vista nervoso perché gli automatismi motori sono depositati in strutture cerebrali profonde, antiche e caratterizzate da un funzionamento semplice e robusto.
Il lavoro intellettuale invece, soprattutto se isolato dall’attività motoria, obbliga ad utilizzare in modo sostenuto una struttura cerebrale filogeneticamente recente, complessa e fragile denominata “rete prefrontale”.
Tale struttura è composta dai neuroni che rivestono gran parte della superficie dei lobi frontali e dalle loro numerosissime connessioni reciproche col resto del cervello; essa presiede alle funzioni più complesse ed elevate della mente umana e cioè intelligenza, affettività, capacità di pensare, visualizzare, progettare, pianificare, capacità di prevedere gli avvenimenti, di accettare ed adeguarsi rapidamente ad una situazione nuova, capacità di controllare gli impulsi e di riconoscere il valore delle norme morali e delle regole sociali. Si potrebbe dire che è la sede del libero arbitrio umano.
Fino a pochi decenni fa solo pochi potevano permettersi di studiare e diventare lavoratori del pensiero mentre oggi il problema della ‘vocazione’ si impone perché tutti lo possono fare e si sentono in dovere di farlo per non restare indietro agli altri, senza nemmeno interrogarsi se si sentano o meno adatti a svolgere poi tutta la vita un lavoro sedentario.
Inizialmente lo sviluppo dell’intelligenza ha consentito alla specie umana di diventare padrona del pianeta ma successivamente ha innescato una micidiale e deleteria lotta tra gli esseri umani per un predominio da conquistare con le armi dell’intelletto.
La competizione intraspecifica esiste in tutte le specie viventi ed è migliorativa della specie solo fino a che favorisce la selezione di individui sempre più adatti all’ambiente. L’essere umano però ha raggiunto il massimo dell’adattamento e siamo arrivati ad una originalissima svolta biologica: non siamo più noi che ci adattiamo all’ambiente ma abbiamo imparato, con l’intelligenza, ad adattare l’ambiente a noi; e adesso vogliamo mettere le mani addirittura sul DNA mimando ciò che la natura da sempre fa, ma con una fondamentale differenza: l’evoluzione naturale lo fa con lentissima prudenza per prove, errori ed eliminazione degli errori selezionando individui sempre più adatti all’ambiente; noi invece tocchiamo il DNA proponendoci obiettivi egoistici antropocentrici con ricadute imprevedibili e forse tragiche sull’equilibrio ecologico del pianeta.
L’odierno uso dell’intelletto come arma di lotta tra individui per la sopravvivenza può portare dunque a conseguenze pericolose e il frutto spesso avvelenato di questa zuffa furiosa viene chiamato progresso.
Note
- Cechov, La mia vita (racconto di un provinciale) in ‘I grandi racconti’ tr. It. Garzanti, Milano 1965, pp.313, 314, 315-316.
- L.N. Tolstoj, Anna Karenina, tr. It. Garzanti, Milano 1974, pp. 256, 257-258.