Farmaci per dormire: benzodiazepine

Innanzitutto i nomi più comuni: Lexotan (bromazepam), Tavor (lorazepam), Valium (diazepam), Minias (Lormetazepam), En (delorazepam), Pasaden (etizolam), Halcion (triazolam), e molte altre.

Le benzodiazepine (BZD) sono psicofarmaci noti anche come tranquillanti o ansiolitici e commercializzati in tutto il mondo a partire dagli anni sessanta; hanno cinque funzioni: rilassano i muscoli, contrastano le crisi epilettiche, tolgono l’ansia, facilitano il sonno e, mentre si è sotto il loro effetto, riducono la capacità di memorizzare.
Le proprietà miorilassanti e antiepilettiche vengono sfruttate in ambito neurologico,
quella amnesica in chirurgia per evitare che il paziente abbia spiacevoli ricordi legati all’intervento, quella sedativo-ipnotica e ansiolitica vengono ampiamente utilizzate sia in ambito psichiatrico che per lenire disagi comuni e diffusi come ansia e insonnia.
Le BDZ agiscono molto rapidamente dopo l’assunzione, sono molto efficaci, poco tossiche in acuto anche a dosaggi alti e si possono associare a quasi tutti i farmaci e malattie senza problemi.
Agiscono principalmente potenziando l’effetto naturale di un neurotrasmettitore presente nel cervello chiamato GABA, il quale svolge regolarmente le cinque funzioni inibitorie sopra elencate ma agiscono anche sul sistema endocrino le cui centraline (ipotalamo e ipofisi) sono inglobate nell’encefalo e con esso hanno frequenti scambi bidirezionali. Sono stati inoltre trovati recettori per le benzodiazepine nella corteccia surrenale, nei testicoli, nelle ovaie, nell’intestino, in alcune cellule del sangue, nell’ipofisi e nelle cellule gliali.
Benzodiazepine simili a quelle commercializzate sono normalmente prodotte dal nostro organismo e introdotte con alcuni cibi che mangiamo ma le dosi di tali benzodiazepine naturali sono enormemente più basse di quelle farmacologiche e svolgono probabilmente un compito fisiologico, utile all’organismo (non per niente esistono recettori appositi per esse); mentre una piccola dose di BDZ è naturale e utile, vi sono gravi malattie come la cirrosi epatica e lo stupor idiopatico ricorrente in cui c’è un’anomala produzione di BDZ endogene o un loro difficile smaltimento: in tali casi si ha una sintomatologia tossica simile all’effetto delle BDZ farmaceutiche pur non assumendole.

A. Mercuri

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Benzodiazepine & Depressione

Benzodiazepine

Per dormire: Benzodiazepine o Trittico?

Attenzione al Minias gocce!

Farmaci per dormire

Bromazepam (Lexotan)

Dipendenza da ansiolitici

 

Fluoxetina

La Fluoxetina è un farmaco appartenente alla classe degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina utilizzato, al pari degli altri SSRI, per il trattamento di disturbi psichiatrici di varia natura come depressione maggiore, disturbi d’ansia (disturbi ossessivo-compulsivi e attacchi di panico) e bulimia Continua a leggere

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Lavoro fisico e lavoro intellettuale

Tratto da:  A. Mercuri, Quarant’anni di riflessioni Ed. Il mio libro 2015 pp. 93-106

Dai primordi della storia umana e fino a pochi decenni fa quasi tutti lavoravamo coi muscoli, mettendo il cervello al servizio del movimento: contadini, allevatori, soldati, artigiani, boscaioli, pescatori, donne di casa, levatrici, addette ai telai, trascorrevamo il tempo lavorando fisicamente e lasciando la mente a riposo; ora le cose si sono invertite: cervello al lavoro e corpo a riposo. La maggior parte di noi lavora seduto usando solo il cervello magari per otto o più ore al giorno. Ma con quali conseguenze?

L’essere umano si è sviluppato sotto la pressione  evolutiva della fatica fisica ma alla cronica fatica nervosa non è abituato.

Purtroppo oggi l’industria, la meccanizzazione, il tornaconto politico e la burocrazia hanno reso ardui i lavori manuali tradizionali come agricoltura e artigianato lasciandoci la possibilità di scegliere solo tra un lavoro sedentario e astratto o un lavoro fisico umiliante e degradante come l’operaio di fabbrica.

Oggi tutti si sentono in dovere di studiare per non restare indietro socialmente, culturalmente ed economicamente. Ma quanti di quei giovani universitari che vediamo poggiati ai muri delle biblioteche con caffè e sigaretta fino a trent’anni amano veramente studiare e svolgere in futuro un’attività lavorativa cerebrale? Io dico davvero pochissimi.

La maggior parte di essi, se oggi ci fosse ancora un’onorevole alternativa ben pagata nell’artigianato o nell’agricoltura, la sceglierebbe subito. E non resterebbero ignoranti perché la vera cultura nasce dall’amore per il sapere, che non ha alcun rapporto con l’addestramento tecnico universitario né con lavori d’ufficio spesso aridi e noiosi.

Anton Cechov nel suo bellissimo e celebre racconto Storia della mia vita ci offre la confessione di un giovane sensibile, onesto e amante della cultura che ama il lavoro manuale e, per questo, viene disprezzato e umiliato dal padre:

 

<<Che opinione hai di te stesso?>> proseguì mio padre. <<I giovani della tua età hanno già una posizione sociale, si sono affermati; ma tu, guarda, tu sei un proletario, un mendicante […]>> […] << Quando cominci a parlare di lavoro fisico,>> disse con irritazione, <<diventi stupido e banale. Comprendi, ragazzo idiota, testa senza cervello, che c’è in te al di fuori della forza fisica lo spirito divino, un sacro fuoco che ti distingue al più alto grado da un asino o da un rettile, e che ti avvicina alla divinità! Il tuo bisnonno, il generale Polòznev, s’è battuto a Borodino; tuo nonno era poeta, oratore e maresciallo della nobiltà; tuo zio era pedagogo; ed io infine, tuo padre, sono architetto. Tutti i Polòznev si sono trasmessi il fuoco sacro; perché mai tu lo dovresti spegnere così? E lasciamo pure, la ragione sta nel fatto di saper fare altra cosa. Non importa chi, anche un imbecille perfetto o un malfattore, può essere adibito a un lavoro fisico, che è il tipo di lavoro proprio dello schiavo e del barbaro; mentre il fuoco sacro non è appannaggio che di poche persone.>> […] << Restare in una stanza afosa,>> gli dissi, << copiare e ricopiare, fare concorrenza a una macchina da scrivere, è vergognoso e mortificante. Che c’entra qui il fuoco sacro?>>

<< Comunque,>> disse mio padre, <<è un lavoro intellettuale. Ma basta! Finiamola con questa conversazione… In tutti i casi, io ti prevengo che se non entri di nuovo in una amministrazione e continui a seguire  le tue disprezzabili inclinazioni, mia figlia ed io  ti priveremo del nostro amore. Ti diserederò; lo giuro come è vero Dio!>>

[…] Un tempo avevo sognato una carriera liberale. M’immaginavo maestro di scuola, medico o scrittore; ma non erano che sogni. La tendenza ai godimenti intellettuali, il teatro, per esempio, e le lettere, era sviluppata in me fino alla passione, ma non sapevo se avevo attitudine per il lavoro dello spirito. Al liceo, provavo un’avversione così invincibile per la lingua greca che avevo dovuto ritirarmi dal quarto corso. Dei professori mi prepararono lungamente per il quinto. Infine, entrai nelle diverse amministrazioni, passando la maggior parte del tempo a oziare.

E mi dicevano che quello era lavoro intellettuale… La mia attività nel campo dello studio e del servizio amministrativo, non esigeva tensione di spirito, talento, attitudini personali, elevazione creatrice dello spirito; era una cosa del tutto meccanica. Metto una simile attività al disotto del lavoro fisico, la disprezzo e non credo che possa servire di scusa a una vita spensierata, poiché non è essa stessa che uno degli aspetti dell’ozio. Non ho probabilmente mai conosciuto il vero lavoro intellettuale…1

 

Sottolineo che non voglio mandare tutti a lavorare manualmente: chi lo fa volentieri ha tutto il diritto di svolgere un lavoro intellettuale. Voglio solo dire che non dovrebbe essere una scelta obbligata e chi si sente portato per un lavoro manuale gratificante dovrebbe poterlo fare.

Cosa dire poi del rapporto tra lavoro manuale e salute mentale? Io sono convinto che, a parte alcune eccezioni, per la maggior parte di noi il lavoro manuale sia benefico perché fisiologico.

Se uno passa otto ore al giorno in ufficio con il neon acceso e un computer davanti e si sente ansioso e depresso cosa devo pensare di lui? Che è un malato da curare? No, penso che sia malato  il suo lavoro.

Tuttavia molte persone riescono ugualmente a trovare un equilibrio psicologico in condizioni artificiali ma questo dipende dalla capacità di adattamento e dalla sensibilità di ognuno. Per chi ha tendenza ai disturbi psichici quali depressione, ansia, ossessioni, psicosi, tossicodipendenza oppure semplicemente per le persone molto sensibili alla disarmonia di uno stile di vita innaturale, il lavoro fisico è un vero toccasana.

Più un uomo è sensibile e quindi fragile più è importante che conduca uno stile di vita sano: il lavoro manuale creativo o ripetitivo ma all’aperto fa sicuramente parte di uno stile di vita sano perché connaturato all’uomo; obbliga inoltre a distogliere l’attenzione da sé e questo è benefico perché l’ansia e la depressione ti feriscono dippiù se le ascolti.

Non so se l’avete mai notato ma uscire in giardino a lavorare la terra è il più potente ansiolitico che esista nei momenti d’ansia acuta mentre in un appartamento cittadino si va su e giù per le stanze senza pace, spesso con una sigaretta in mano.

Così Tolstoj in “Anna Karenina”:

 

Senza capire che fosse e di dove arrivasse, nel mezzo del lavoro a un tratto provò una gradevole sensazione di fresco sulle calde spalle sudate. Diede un’occhiata al cielo mentre affilava la falce. Era sopraggiunta una nube bassa e pesante  e venivano giù grossi goccioloni di pioggia. Alcuni contadini andarono a prendere i gabbani e se li misero; altri, come Levin, si strinsero nelle spalle con gioia sotto la piacevole rinfrescata.

Passarono ancora una falciata e un’altra ancora. Passarono falciate lunghe, corte, con erba buona e cattiva. Levin aveva perduto ogni nozione del tempo e non sapeva assolutamente se fosse tardi o ancor presto. Nel suo lavoro adesso aveva cominciato a prodursi un mutamento, che gli procurava un’immensa soddisfazione. Nel mezzo del lavoro lo prendevano momenti in cui dimenticava che cosa facesse , si sentiva leggero, e proprio in quei momenti la sua falciata riusciva quasi altrettanto regolare e buona di quella di Tit.[…]

Il sudore che lo inondava gli dava frescura e il sole, che gli scottava la schiena, la testa e il braccio rimboccato sino al gomito, gli dava vigore e tenacia nel lavoro; e sempre più frequenti gli venivano quei momenti di incoscienza quando si poteva non pensare  a quel che si faceva e la falce tagliava da se. Ed erano momenti felici.2

 

Prendiamo ad esempio un falegname o un contadino tradizionali: fanno un lavoro concreto, hanno un contatto diretto con la realtà perché impegnano i sensi. Il falegname solleva un pezzo di legno, ne avverte già il peso, lo osserva apprezzandone colore e venature, quando lo lavora sente il profumo che emana, quando costruisce un manufatto ha il piacere di  vedere e toccare con mano ogni sera i progressi del suo lavoro.

Anche il contadino appaga i propri sensi e li sazia col peso, il colore, il profumo della terra che lavora; si appaga con la magia della vita che nasce per mano sua, col piacere e la soddisfazione di creare da sé il proprio cibo anelando all’antica, grande soddisfazione dell’autosufficienza alimentare.

Il lavoro fisico ha un vero e proprio potere preventivo e curativo sui  disturbi mentali perché con la concretezza richiama alla realtà.

Fino agli anni sessanta circa negli ospedali psichiatrici esisteva  l’ergoterapia cioè la terapia basta sul lavoro; i malati idonei svolgevano utili lavori tradizionali all’interno della struttura manicomiale  e lo facevano con grande piacere ed orgoglio. Vi era il falegname, il fabbro, l’ortolano, il cuoco, il barista, un po’ come ora nelle comunità terapeutiche per tossicodipendenti.

Quando l’ergoterapia è stata bandita perché considerata uno “sfruttamento” non retribuito o una costrizione, i malati mentali che prima lavoravano sono stati lasciati “liberi” di non far niente e sono così riprecipitati nella follia di cui si erano parzialmente liberati lavorando e sempre in nome della “libertà” hanno avuto bisogno di riprendere terapie psicofarmacologiche molto pesanti che durante il lavoro manuale avevano potuto abbandonare.

Il lavoro manuale rispetto a quello intellettuale ha un solido potere  preventivo e curativo sulle patologie mentali e questo, molto semplicemente, perché l’essere umano per migliaia d’anni ha fatto lavori fisici e non intellettuali.

Io non dico che la vita moderna sia sbagliata in se, ma dico con certezza che si è discostata troppo dalla fisiologia umana.

I movimenti  che dobbiamo compiere per svolgere un lavoro manuale sono antichi, automatici e non stancano dal punto di vista nervoso perché gli automatismi motori sono depositati in strutture cerebrali profonde, antiche e  caratterizzate da un funzionamento semplice e robusto.

Il lavoro intellettuale invece, soprattutto se isolato dall’attività motoria, obbliga ad utilizzare in modo sostenuto una struttura cerebrale filogeneticamente recente, complessa e fragile denominata “rete prefrontale”.

Tale struttura è composta dai neuroni che rivestono gran parte della superficie dei lobi frontali e dalle loro numerosissime connessioni reciproche col resto del cervello; essa presiede alle funzioni più complesse ed elevate della mente umana e cioè intelligenza, affettività, capacità di pensare, visualizzare, progettare, pianificare, capacità di prevedere gli avvenimenti, di accettare ed adeguarsi  rapidamente ad una situazione nuova, capacità di controllare gli impulsi e di riconoscere il valore delle norme morali e delle regole sociali. Si potrebbe dire che è la sede del libero arbitrio umano.

Fino a pochi decenni fa solo pochi potevano permettersi di studiare e diventare lavoratori del pensiero mentre oggi il problema della ‘vocazione’ si impone perché tutti lo possono fare e si sentono in dovere  di farlo per non restare indietro agli altri, senza nemmeno interrogarsi se si sentano o meno adatti a svolgere poi tutta la vita un lavoro sedentario.

Inizialmente lo sviluppo dell’intelligenza ha consentito alla specie umana di diventare padrona del pianeta ma successivamente ha innescato  una micidiale e deleteria lotta tra gli esseri umani per un predominio da conquistare con le armi dell’intelletto.

La competizione  intraspecifica esiste in tutte le specie viventi ed è migliorativa della specie solo fino a che  favorisce la selezione di individui sempre più adatti all’ambiente. L’essere umano però ha raggiunto il massimo dell’adattamento e siamo arrivati ad una originalissima svolta biologica: non siamo più noi che ci adattiamo all’ambiente ma abbiamo imparato, con l’intelligenza, ad adattare l’ambiente a noi;  e adesso vogliamo mettere le mani addirittura sul DNA mimando ciò che la natura da sempre fa, ma con una fondamentale differenza: l’evoluzione naturale lo fa con lentissima prudenza per prove, errori ed eliminazione degli errori  selezionando individui sempre più adatti all’ambiente; noi invece tocchiamo il DNA proponendoci obiettivi  egoistici antropocentrici con ricadute imprevedibili e forse tragiche sull’equilibrio ecologico del pianeta.

L’odierno uso dell’intelletto come arma di lotta tra individui per la sopravvivenza può portare dunque a conseguenze pericolose e il frutto spesso avvelenato di questa zuffa furiosa viene chiamato progresso.

 

Note

 

  1. Cechov, La mia vita (racconto di un provinciale) in ‘I grandi racconti’ tr. It. Garzanti, Milano 1965, pp.313, 314, 315-316.
  2. L.N. Tolstoj, Anna Karenina, tr. It. Garzanti, Milano 1974, pp. 256, 257-258.

 

 

 

 

 

Saggezza perduta

Un problema della nostra vita d’oggi è la mancanza di un modello di vita fisiologico cui conformarci che corrisponda alla modalità corretta di usare corpo e cervello per vivere al meglio rispettando le possibilità e i limiti della nostra “macchina”:  come dire, un libretto d’istruzioni, che una volta era tramandato dagli anziani saggi della comunità ma che ora, nell’epoca del sapere illimitato di internet, nessuno conosce e considera più. Si, perché la vita ha alcune regole e istruzioni d’uso così come le hanno il nostro corpo e il nostro cervello.

Proprio oggi che la scienza ci spiega tutto, abbiamo perso le nozioni base: così, dopo aver letto un milione di libri e di pagine web, rischiamo di avere molto meno buon senso di un carrettiere dell’800

Il nostro corpo e la nostra mente hanno regole e pretendono che siano rispettate: tali regole sono legate alla nostra struttura psicofisica costituitasi in quel lunghissimo tempo in cui ambiente e stile di vita sono rimasti costanti, centinaia di migliaia di anni durante i quali ci siamo formati fisicamente e psicologicamente plasmandoci sulle caratteristiche costanti di quell’ambiente e di quello stile di vita. Oggi viviamo in un modo follemente diverso e senza limiti, in un ambiente stravolto, ma ancora con geni e anima di quel tempo. Come potremmo non essere infelici?

Ci sono moltissimi uomini oggi che fanno un uso assolutamente improprio della “macchina corpo-mente” di cui siamo tutti dotati, vivono una vita artificiale e forzata in ambienti artificiali e senza gioia e si domandano poi donde provenga il loro scontento cronico che diventa depressione. Pensano che sia la loro “macchina” a non funzionare, vogliono un “meccanico” che gliela aggiusti con qualche intruglio chimico: ma la loro macchina è a posto, sono loro che la usano male.

Solo due cose possono tenerci ancorati alla realtà: il contatto con la natura e il lavoro fisico.

E’ solo la mia una oziosa considerazione teorica?

Chi ha la Porsche in garage, mi direbbe che sono un emotivo, un fragile filosofo emotivo mentre lui,  uomo pratico e competitivo, vive senza farsi troppe domande, si adegua e vince. E uomini stupidi così ce ne sono moltissimi, anche tra spocchiosi professori che credono o fanno finta di credere nel progresso e nella chimica.

Vi propongo quanto ho scritto nel 2015 nel mio libro “Quarant’anni di riflessioni” ai capitoli Ricerca di omologhi e surrogati”  e Lavoro fisico e lavoro intellettuale” riguardo alla necessità di conformarci ad uno stile di vita più sobrio e naturale.

Buona lettura,

A. Mercuri

 

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Ricerca di Omologhi e Surrogati

Tratto da: A.Mercuri,  Quarant’anni di riflessioni, Ed. Il mio libro 2015 pp. 129-137

La specie umana si distingue dalle altre specie animali per l’enorme e rapida capacità di apprendere, adattarsi e trasmettere conoscenza. Con tali caratteristiche l’uomo è in grado di sopravvivere anche in ambienti nuovi e ostili.
Tuttavia una cosa è sopravvivere, altra cosa è vivere bene: io  ho l’impressione che oggi l’uomo stia solo sopravvivendo in un ambiente follemente diverso da quello ancestrale che gli ha plasmato corpo, mente e geni.
Una branca attuale della psicologia nota come psicologia evoluzionistica ci sta aiutando ad interpretare i comportamenti umani odierni in un’ottica antropologica cioè di storia evolutiva umana: così come per capire una persona è utile sapere chi erano i suoi parenti così per capire l’umanità è utile sapere come vivevano i nostri avi comuni.
A noi resta il compito di far tesoro delle ricerche in questo campo per riarmonizzarci con una modalità di vita arcaica durante la quale siamo diventati quello che siamo: ambiente e stile di vita umani sono rimasti pressoché costanti per centinaia di migliaia d’anni, poi sono cambiati con andamento esponenziale negli ultimi cento, a partire dalla rivoluzione industriale, senza dare il tempo ai nostri geni di adattarvisi; forse la vita moderna non è peggiore di quella antica ma non è consona alla fisiologia umana perché si è discostata troppo e troppo rapidamente da quella che abbiamo condotto per millenni e fino a ieri.

Konrad Lorenz:

[…], benchè l’adattamento alla cultura esistente sia una facoltà contenuta nel nostro programma filogenetico, l’uomo non riesce a tenere il passo con la velocità crescente dei mutamenti della civiltà e dell’ambiente sociale. Questo divario aumenta anno dopo anno.[…] I mutamenti culturali,[…], vanno avanti a un ritmo così rapido che è impossibile nutrire la minima speranza in un adattamento filogenetico alla nuova situazione dell’umanità. L’effetto creativo della selezione naturale non esiste più. […] La velocità con cui lo spirito umano si trasforma e l’uomo trasforma l’ambiente in qualcosa di completamente diverso da ciò che esisteva fino a ieri è talmente vertiginosa che, in confronto, l’evoluzione filogenetica è praticamente immobile. L’anima umana è rimasta sostanzialmente la stessa da quando è sorta la civiltà.(1)

Lorenz sottolinea che a fronte dell’enorme cambiamento attuale di stile di vita e d’ambiente, “l’anima” umana e quindi le nostre istanze psicologiche e affettive, è rimasta la medesima dei primordi.
Per vivere bene oggi, dobbiamo dunque studiare almeno i rudimenti dell’antropologia adottando uno stile di vita consono alla nostra antica “anima”: pur vivendo l’attualità, dobbiamo cercare di recuperare il buono del passato e, ove non sia possibile questo, crearci omologhi e surrogati della fisiologica vita tradizionale.
Io definisco surrogato il ripristino in chiave moderna d’un ambiente, comportamento o stile di vita arcaico ancor oggi desiderabile ma non più attuabile: cercare di vivere più possibile immersi nella natura, fare attività motoria, esercitarsi in abilità manuali, instaurare rapporti umani sinceri e profondi con le persone son tutti esempi di surrogati benefici della vita ancestrale che ci ha plasmato così come ancor oggi siamo. A proposito di rapporti sociali, la rete di contatti virtuali tramite telefono e internet sono un tipico surrogato dei rapporti sociali reali: una volta, nel lavoro e nello svago si stava in gruppo  scambiandosi spesso la parola mentre oggi mancando questo le persone cercano di camminare nella vita col conforto di tenersi per mano attraverso i social network.
Le cose, per ora, vanno così ma meglio sarebbe riuscire, con uno sforzo comune, a riappropriarci di una società più umana dove rinasca la convivialità perduta: i surrogati vanno accettati solo dove non è più ripristinabile l’autentico ma dobbiamo sempre tenere vivo dentro di noi l’ideale di unire il buono di oggi con quello di ieri.
Ci sono poi situazioni, pulsioni, desideri e comportamenti arcaici oggi inaccettabili o non desiderabili che continuano tuttavia ad urgere dentro di noi: l’aggressività verso i nostri simili, la violenza, la guerra, il bisogno di ferire e sopraffare i più deboli. In tali casi è necessario trovare omologhi comportamentali in grado di dirottare l’energia aggressiva verso imprese edificanti: la dedizione alla cultura mitiga gli istinti aggressivi e soddisfa il desiderio di novità mentre nell’amore tra uomo e donna si sfogano senza violenza molti istinti primordiali. Il lavoro fisico e lo sport possono inoltre mitigare l’aggressività fisica.
Ogni nostro comportamento è dunque fonte di benessere e armonia solo se ricalca un comportamento atavico oppure ne è omologo o surrogato; abituiamoci pertanto nel corso della nostra balorda vita moderna a riflettere, chiedendoci: a quale comportamento atavico può essere assimilato ciò che sto facendo? Pur essendo formalmente diverso fa vibrare ugualmente le antiche corde dell’anima?
Se abbiamo vissuto liberi nelle foreste per centinaia di migliaia d’anni e siamo stati agricoltori o artigiani per altri diecimila è ovvio che  il nostro cuore tenda a battere ancora quei ritmi; se abbiamo centinaia di muscoli guizzanti e le nostre mani sono meravigliosi strumenti creativi non possiamo  reprimere la nostra atavica necessità di muoverci e creare manufatti.
Quindi, soprattutto se facciamo un lavoro cerebrale e astratto, dedichiamo parte del nostro tempo libero a passeggiate contemplative senza meta, a  piccoli lavori di  giardinaggio anche casalinghi o a lavoretti manuali da compiere nei nostri pur striminziti e poco adatti appartamenti fregandocene di quel pò di sporco che produciamo: ben vengano a rallegrare le nostre case tracce di terra e polvere, i detersivi sono assai più tristi e tossici.
Ci sono oggi molte cose radicalmente nuove che non hanno analogia con situazioni tradizionali e vanno quindi approcciate con prudenza: è difficile intravvedere omologhi e surrogati nell’eccesso di immagini fotografiche, nella valanga di notizie da tutto il mondo sotto le quali veniamo ogni giorno seppelliti, nella luce elettrica che prolunga artificialmente le nostre giornate, nello stile di vita caricaturale dell’homo faber occidentale e nella globalizzazione che mescola razze provenienti dai cinque continenti dentro il calderone di un ambiente standardizzato.
E così la nostra diffusa sedentarietà non ha uguali nelle epoche passate quando vi ci era costretto solo l’uomo malato ed è inedito l’attuale eccesso continuo di cibo o la possibilità di vivere una vita artificiale incollati allo schermo di un computer.
Se vogliamo dunque ritrovare un’armonia e una serenità perdute dobbiamo praticare un’auto-osservazione critica per vagliare e correggere i nostri comportamenti  adattandoli a ritmi e modi tradizionali, quindi consoni alla natura umana. Non ci sono più le tradizioni a guidarci quindi  la cultura personale è oggi indispensabile: parlo di cultura autentica, espressione di amore per il sapere e non di cultura come strumento di potere acquisito  con disgusto solo per fregare meglio il prossimo.

Note
Lorenz, Il declino dell’uomo, tr. It. Mondadori, Milano 1991, pp. 123-124, 173.

Elettroshock

In psichiatria la terapia elettroconvulsivante (TEC), comunemente nota come elettroshock, è una tecnica terapeutica basata sull’induzione di convulsioni nel paziente successivamente al passaggio di una corrente elettrica attraverso il cervello. La terapia fu sviluppata e introdotta negli anni trenta dai neurologi italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini.

L’effettiva utilità e opportunità di questa tecnica è tutt’oggi molto dibattuta: alcune tipologie di pazienti presentano oggettivi miglioramenti in seguito al trattamento, in altri casi la TEC ha creato effetti indesiderati nei pazienti cui è stata somministrata.[1] Il dizionario medico Larousse nell’edizione del 1974 riporta: «la maggior parte degli psichiatri pensano che nessuna terapia ha ancora dato in psichiatria risultati comparabili alla TEC».[2] La terapia ha comunemente una fama negativa, a causa sia dell’abuso e della pratica aggressiva che se ne è fatta in taluni casi in passato, sia della presentazione che ne è stata a volte data in letteratura e cinematografia.

Terapia di privazione del sonno

Consiste nel fare dormire il soggetto depresso meno ore del solito, soprattutto svegliandolo preso al mattino. Si è notato un certo miglioramento dell’umore anche se è una tecnica non certo attuabile alla lunga perchè controproducente. Interessante è invece notare come già vi sia nel depresso la tendenza spontanea al risveglio precoce che sarebbe quindi interpretabile come un automatismo compensatorio.

Stimolazione Magnetica Transcranica

La stimolazione magnetica transcranica (TMS) è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica del tessuto cerebrale dall’esterno che provoca uno squilibrio piuttosto ridotto e transitorio. Si usa per indagare il funzionamento del cervello oppure per trattare disturbi psichiatrici e neurologici quali depressione, allucinazioni, malattia di Parkinson, ecc.; gli studi su questi presunti effetti terapeutici sono stati tuttavia condotti, finora, solo su scala ridotta e hanno dato risultati contrastanti. La TMS è stata approvata dalla Food and Drug Administration (FDA) solo per l’emicrania e la depressione resistente ad altri trattamenti.

Stimolazione cerebrale profonda

La stimolazione cerebrale profonda (DBS dall’acronimo inglese Deep Brain Stimulation) è un trattamento neurochirurgico che prevede la stimolazione o inibizione di certe aree del cervello attraverso microelettrodi impiantati in determinate aree cerebrali e alimentati da un generatore posto sottocute. E’ molto utilizzata nella Malattia di Parkinson ma anche in altre patologie neurologiche come epilessie, dolori cronici o gravi forme ossessivo-compulsive. Altri usi sono solo sperimentali.

Mindfulness

La mindfulness, o meditazione di consapevolezza, si riferisce a quel momento di presenza mentale in cui tutto ciò che accade dentro e fuori di sé viene visto come è realmente, senza dolore, paura o sofferenza. Con la meditazione di consapevolezza si disinnesca la condizione automatica e ancestrale di allarme: la presenza mentale permette di riconoscere il continuo flusso di sensazioni, pensieri, emozioni, immagini, senza identificarsi con essi (disidentificazione) e sentendosi quindi meno vincolati e più liberi nell’azione (deautomatizzazione). Sollecitando così un modo nuovo di relazionarsi con sé stessi e la propria esperienza.