Probabilmente qualcuno di voi si domanderà cosa posso fare io di concreto per i miei lettori, al di là degli articoli che pubblico.

Sono medico psicoterapeuta, di formazione cognitivo comportamentale ma cerco di trarre il meglio da ogni tipo di psicoterapia; studio la psicofarmacologia per poter utilizzare gli psicofarmaci in modo razionale e scientifico, non secondo la moda del momento o secondo i consigli dei rappresentanti delle case produttrici, che ovviamente sono pilotati e distorti. Cerco di insegnare a chi mi segue, che gli psicofarmaci devono essere considerati come l’ultima spiaggia, dopo che tutti gli altri tentativi sono falliti e spesso aiuto le persone a sospenderli, cosa difficile che va fatta in modo ordinato e scientifico, conoscendo modalità e tempi per sospenderli. Talvolta, quando lo ritengo l’unica opzione possibile, io stesso prescrivo psicofarmaci e questo avviene quando il paziente è ormai troppo acuto per giovarsi delle parole oppure in astinenza per precedenti cure psicofarmacologiche sospese in modo errato: in ogni caso comunque, la terapia psicofarmacologica deve essere assunta per il più breve tempo possibile, cercando di tenerne bassi i dosaggi. Ritengo che la vera terapia del disagio psichico sia la psicoterapia, una psicoterapia che insegni al paziente a capirsi e conoscersi, trovando un equilibrio che gli consenta di vivere bene secondo le proprie caratteristiche psicologiche e inclinazioni di carattere: ogni essere umano infatti possiede delle abilità straordinarie in qualcosa e i fallimenti spesso son dovuti al tentativo di fare cose per le quali non si è portati. Ritengo pertanto che gli psicofarmaci, pur indispensabili in certi casi, devano servire solo come aiuto temporaneo per smussare i momenti di acuzie del disagio psichico: mai come terapia unica e cronica bensì come salvataggio temporaneo in attesa che la psicoterapia faccia effetto.

A. Mercuri

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Lavoro fisico e lavoro intellettuale

Tratto da:  A. Mercuri, Quarant’anni di riflessioni Ed. Il mio libro 2015 pp. 93-106

Dai primordi della storia umana e fino a pochi decenni fa quasi tutti lavoravamo coi muscoli, mettendo il cervello al servizio del movimento: contadini, allevatori, soldati, artigiani, boscaioli, pescatori, donne di casa, levatrici, addette ai telai, trascorrevamo il tempo lavorando fisicamente e lasciando la mente a riposo; ora le cose si sono invertite: cervello al lavoro e corpo a riposo. La maggior parte di noi lavora seduto usando solo il cervello magari per otto o più ore al giorno. Ma con quali conseguenze?

L’essere umano si è sviluppato sotto la pressione  evolutiva della fatica fisica ma alla cronica fatica nervosa non è abituato.

Purtroppo oggi l’industria, la meccanizzazione, il tornaconto politico e la burocrazia hanno reso ardui i lavori manuali tradizionali come agricoltura e artigianato lasciandoci la possibilità di scegliere solo tra un lavoro sedentario e astratto o un lavoro fisico umiliante e degradante come l’operaio di fabbrica.

Oggi tutti si sentono in dovere di studiare per non restare indietro socialmente, culturalmente ed economicamente. Ma quanti di quei giovani universitari che vediamo poggiati ai muri delle biblioteche con caffè e sigaretta fino a trent’anni amano veramente studiare e svolgere in futuro un’attività lavorativa cerebrale? Io dico davvero pochissimi.

La maggior parte di essi, se oggi ci fosse ancora un’onorevole alternativa ben pagata nell’artigianato o nell’agricoltura, la sceglierebbe subito. E non resterebbero ignoranti perché la vera cultura nasce dall’amore per il sapere, che non ha alcun rapporto con l’addestramento tecnico universitario né con lavori d’ufficio spesso aridi e noiosi.

Anton Cechov nel suo bellissimo e celebre racconto Storia della mia vita ci offre la confessione di un giovane sensibile, onesto e amante della cultura che ama il lavoro manuale e, per questo, viene disprezzato e umiliato dal padre:

 

<<Che opinione hai di te stesso?>> proseguì mio padre. <<I giovani della tua età hanno già una posizione sociale, si sono affermati; ma tu, guarda, tu sei un proletario, un mendicante […]>> […] << Quando cominci a parlare di lavoro fisico,>> disse con irritazione, <<diventi stupido e banale. Comprendi, ragazzo idiota, testa senza cervello, che c’è in te al di fuori della forza fisica lo spirito divino, un sacro fuoco che ti distingue al più alto grado da un asino o da un rettile, e che ti avvicina alla divinità! Il tuo bisnonno, il generale Polòznev, s’è battuto a Borodino; tuo nonno era poeta, oratore e maresciallo della nobiltà; tuo zio era pedagogo; ed io infine, tuo padre, sono architetto. Tutti i Polòznev si sono trasmessi il fuoco sacro; perché mai tu lo dovresti spegnere così? E lasciamo pure, la ragione sta nel fatto di saper fare altra cosa. Non importa chi, anche un imbecille perfetto o un malfattore, può essere adibito a un lavoro fisico, che è il tipo di lavoro proprio dello schiavo e del barbaro; mentre il fuoco sacro non è appannaggio che di poche persone.>> […] << Restare in una stanza afosa,>> gli dissi, << copiare e ricopiare, fare concorrenza a una macchina da scrivere, è vergognoso e mortificante. Che c’entra qui il fuoco sacro?>>

<< Comunque,>> disse mio padre, <<è un lavoro intellettuale. Ma basta! Finiamola con questa conversazione… In tutti i casi, io ti prevengo che se non entri di nuovo in una amministrazione e continui a seguire  le tue disprezzabili inclinazioni, mia figlia ed io  ti priveremo del nostro amore. Ti diserederò; lo giuro come è vero Dio!>>

[…] Un tempo avevo sognato una carriera liberale. M’immaginavo maestro di scuola, medico o scrittore; ma non erano che sogni. La tendenza ai godimenti intellettuali, il teatro, per esempio, e le lettere, era sviluppata in me fino alla passione, ma non sapevo se avevo attitudine per il lavoro dello spirito. Al liceo, provavo un’avversione così invincibile per la lingua greca che avevo dovuto ritirarmi dal quarto corso. Dei professori mi prepararono lungamente per il quinto. Infine, entrai nelle diverse amministrazioni, passando la maggior parte del tempo a oziare.

E mi dicevano che quello era lavoro intellettuale… La mia attività nel campo dello studio e del servizio amministrativo, non esigeva tensione di spirito, talento, attitudini personali, elevazione creatrice dello spirito; era una cosa del tutto meccanica. Metto una simile attività al disotto del lavoro fisico, la disprezzo e non credo che possa servire di scusa a una vita spensierata, poiché non è essa stessa che uno degli aspetti dell’ozio. Non ho probabilmente mai conosciuto il vero lavoro intellettuale…1

 

Sottolineo che non voglio mandare tutti a lavorare manualmente: chi lo fa volentieri ha tutto il diritto di svolgere un lavoro intellettuale. Voglio solo dire che non dovrebbe essere una scelta obbligata e chi si sente portato per un lavoro manuale gratificante dovrebbe poterlo fare.

Cosa dire poi del rapporto tra lavoro manuale e salute mentale? Io sono convinto che, a parte alcune eccezioni, per la maggior parte di noi il lavoro manuale sia benefico perché fisiologico.

Se uno passa otto ore al giorno in ufficio con il neon acceso e un computer davanti e si sente ansioso e depresso cosa devo pensare di lui? Che è un malato da curare? No, penso che sia malato  il suo lavoro.

Tuttavia molte persone riescono ugualmente a trovare un equilibrio psicologico in condizioni artificiali ma questo dipende dalla capacità di adattamento e dalla sensibilità di ognuno. Per chi ha tendenza ai disturbi psichici quali depressione, ansia, ossessioni, psicosi, tossicodipendenza oppure semplicemente per le persone molto sensibili alla disarmonia di uno stile di vita innaturale, il lavoro fisico è un vero toccasana.

Più un uomo è sensibile e quindi fragile più è importante che conduca uno stile di vita sano: il lavoro manuale creativo o ripetitivo ma all’aperto fa sicuramente parte di uno stile di vita sano perché connaturato all’uomo; obbliga inoltre a distogliere l’attenzione da sé e questo è benefico perché l’ansia e la depressione ti feriscono dippiù se le ascolti.

Non so se l’avete mai notato ma uscire in giardino a lavorare la terra è il più potente ansiolitico che esista nei momenti d’ansia acuta mentre in un appartamento cittadino si va su e giù per le stanze senza pace, spesso con una sigaretta in mano.

Così Tolstoj in “Anna Karenina”:

 

Senza capire che fosse e di dove arrivasse, nel mezzo del lavoro a un tratto provò una gradevole sensazione di fresco sulle calde spalle sudate. Diede un’occhiata al cielo mentre affilava la falce. Era sopraggiunta una nube bassa e pesante  e venivano giù grossi goccioloni di pioggia. Alcuni contadini andarono a prendere i gabbani e se li misero; altri, come Levin, si strinsero nelle spalle con gioia sotto la piacevole rinfrescata.

Passarono ancora una falciata e un’altra ancora. Passarono falciate lunghe, corte, con erba buona e cattiva. Levin aveva perduto ogni nozione del tempo e non sapeva assolutamente se fosse tardi o ancor presto. Nel suo lavoro adesso aveva cominciato a prodursi un mutamento, che gli procurava un’immensa soddisfazione. Nel mezzo del lavoro lo prendevano momenti in cui dimenticava che cosa facesse , si sentiva leggero, e proprio in quei momenti la sua falciata riusciva quasi altrettanto regolare e buona di quella di Tit.[…]

Il sudore che lo inondava gli dava frescura e il sole, che gli scottava la schiena, la testa e il braccio rimboccato sino al gomito, gli dava vigore e tenacia nel lavoro; e sempre più frequenti gli venivano quei momenti di incoscienza quando si poteva non pensare  a quel che si faceva e la falce tagliava da se. Ed erano momenti felici.2

 

Prendiamo ad esempio un falegname o un contadino tradizionali: fanno un lavoro concreto, hanno un contatto diretto con la realtà perché impegnano i sensi. Il falegname solleva un pezzo di legno, ne avverte già il peso, lo osserva apprezzandone colore e venature, quando lo lavora sente il profumo che emana, quando costruisce un manufatto ha il piacere di  vedere e toccare con mano ogni sera i progressi del suo lavoro.

Anche il contadino appaga i propri sensi e li sazia col peso, il colore, il profumo della terra che lavora; si appaga con la magia della vita che nasce per mano sua, col piacere e la soddisfazione di creare da sé il proprio cibo anelando all’antica, grande soddisfazione dell’autosufficienza alimentare.

Il lavoro fisico ha un vero e proprio potere preventivo e curativo sui  disturbi mentali perché con la concretezza richiama alla realtà.

Fino agli anni sessanta circa negli ospedali psichiatrici esisteva  l’ergoterapia cioè la terapia basta sul lavoro; i malati idonei svolgevano utili lavori tradizionali all’interno della struttura manicomiale  e lo facevano con grande piacere ed orgoglio. Vi era il falegname, il fabbro, l’ortolano, il cuoco, il barista, un po’ come ora nelle comunità terapeutiche per tossicodipendenti.

Quando l’ergoterapia è stata bandita perché considerata uno “sfruttamento” non retribuito o una costrizione, i malati mentali che prima lavoravano sono stati lasciati “liberi” di non far niente e sono così riprecipitati nella follia di cui si erano parzialmente liberati lavorando e sempre in nome della “libertà” hanno avuto bisogno di riprendere terapie psicofarmacologiche molto pesanti che durante il lavoro manuale avevano potuto abbandonare.

Il lavoro manuale rispetto a quello intellettuale ha un solido potere  preventivo e curativo sulle patologie mentali e questo, molto semplicemente, perché l’essere umano per migliaia d’anni ha fatto lavori fisici e non intellettuali.

Io non dico che la vita moderna sia sbagliata in se, ma dico con certezza che si è discostata troppo dalla fisiologia umana.

I movimenti  che dobbiamo compiere per svolgere un lavoro manuale sono antichi, automatici e non stancano dal punto di vista nervoso perché gli automatismi motori sono depositati in strutture cerebrali profonde, antiche e  caratterizzate da un funzionamento semplice e robusto.

Il lavoro intellettuale invece, soprattutto se isolato dall’attività motoria, obbliga ad utilizzare in modo sostenuto una struttura cerebrale filogeneticamente recente, complessa e fragile denominata “rete prefrontale”.

Tale struttura è composta dai neuroni che rivestono gran parte della superficie dei lobi frontali e dalle loro numerosissime connessioni reciproche col resto del cervello; essa presiede alle funzioni più complesse ed elevate della mente umana e cioè intelligenza, affettività, capacità di pensare, visualizzare, progettare, pianificare, capacità di prevedere gli avvenimenti, di accettare ed adeguarsi  rapidamente ad una situazione nuova, capacità di controllare gli impulsi e di riconoscere il valore delle norme morali e delle regole sociali. Si potrebbe dire che è la sede del libero arbitrio umano.

Fino a pochi decenni fa solo pochi potevano permettersi di studiare e diventare lavoratori del pensiero mentre oggi il problema della ‘vocazione’ si impone perché tutti lo possono fare e si sentono in dovere  di farlo per non restare indietro agli altri, senza nemmeno interrogarsi se si sentano o meno adatti a svolgere poi tutta la vita un lavoro sedentario.

Inizialmente lo sviluppo dell’intelligenza ha consentito alla specie umana di diventare padrona del pianeta ma successivamente ha innescato  una micidiale e deleteria lotta tra gli esseri umani per un predominio da conquistare con le armi dell’intelletto.

La competizione  intraspecifica esiste in tutte le specie viventi ed è migliorativa della specie solo fino a che  favorisce la selezione di individui sempre più adatti all’ambiente. L’essere umano però ha raggiunto il massimo dell’adattamento e siamo arrivati ad una originalissima svolta biologica: non siamo più noi che ci adattiamo all’ambiente ma abbiamo imparato, con l’intelligenza, ad adattare l’ambiente a noi;  e adesso vogliamo mettere le mani addirittura sul DNA mimando ciò che la natura da sempre fa, ma con una fondamentale differenza: l’evoluzione naturale lo fa con lentissima prudenza per prove, errori ed eliminazione degli errori  selezionando individui sempre più adatti all’ambiente; noi invece tocchiamo il DNA proponendoci obiettivi  egoistici antropocentrici con ricadute imprevedibili e forse tragiche sull’equilibrio ecologico del pianeta.

L’odierno uso dell’intelletto come arma di lotta tra individui per la sopravvivenza può portare dunque a conseguenze pericolose e il frutto spesso avvelenato di questa zuffa furiosa viene chiamato progresso.

 

Note

 

  1. Cechov, La mia vita (racconto di un provinciale) in ‘I grandi racconti’ tr. It. Garzanti, Milano 1965, pp.313, 314, 315-316.
  2. L.N. Tolstoj, Anna Karenina, tr. It. Garzanti, Milano 1974, pp. 256, 257-258.

 

 

 

 

 

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Ricerca di Omologhi e Surrogati

Tratto da: A.Mercuri,  Quarant’anni di riflessioni, Ed. Il mio libro 2015 pp. 129-137

La specie umana si distingue dalle altre specie animali per l’enorme e rapida capacità di apprendere, adattarsi e trasmettere conoscenza. Con tali caratteristiche l’uomo è in grado di sopravvivere anche in ambienti nuovi e ostili.
Tuttavia una cosa è sopravvivere, altra cosa è vivere bene: io  ho l’impressione che oggi l’uomo stia solo sopravvivendo in un ambiente follemente diverso da quello ancestrale che gli ha plasmato corpo, mente e geni.
Una branca attuale della psicologia nota come psicologia evoluzionistica ci sta aiutando ad interpretare i comportamenti umani odierni in un’ottica antropologica cioè di storia evolutiva umana: così come per capire una persona è utile sapere chi erano i suoi parenti così per capire l’umanità è utile sapere come vivevano i nostri avi comuni.
A noi resta il compito di far tesoro delle ricerche in questo campo per riarmonizzarci con una modalità di vita arcaica durante la quale siamo diventati quello che siamo: ambiente e stile di vita umani sono rimasti pressoché costanti per centinaia di migliaia d’anni, poi sono cambiati con andamento esponenziale negli ultimi cento, a partire dalla rivoluzione industriale, senza dare il tempo ai nostri geni di adattarvisi; forse la vita moderna non è peggiore di quella antica ma non è consona alla fisiologia umana perché si è discostata troppo e troppo rapidamente da quella che abbiamo condotto per millenni e fino a ieri.

Konrad Lorenz:

[…], benchè l’adattamento alla cultura esistente sia una facoltà contenuta nel nostro programma filogenetico, l’uomo non riesce a tenere il passo con la velocità crescente dei mutamenti della civiltà e dell’ambiente sociale. Questo divario aumenta anno dopo anno.[…] I mutamenti culturali,[…], vanno avanti a un ritmo così rapido che è impossibile nutrire la minima speranza in un adattamento filogenetico alla nuova situazione dell’umanità. L’effetto creativo della selezione naturale non esiste più. […] La velocità con cui lo spirito umano si trasforma e l’uomo trasforma l’ambiente in qualcosa di completamente diverso da ciò che esisteva fino a ieri è talmente vertiginosa che, in confronto, l’evoluzione filogenetica è praticamente immobile. L’anima umana è rimasta sostanzialmente la stessa da quando è sorta la civiltà.(1)

Lorenz sottolinea che a fronte dell’enorme cambiamento attuale di stile di vita e d’ambiente, “l’anima” umana e quindi le nostre istanze psicologiche e affettive, è rimasta la medesima dei primordi.
Per vivere bene oggi, dobbiamo dunque studiare almeno i rudimenti dell’antropologia adottando uno stile di vita consono alla nostra antica “anima”: pur vivendo l’attualità, dobbiamo cercare di recuperare il buono del passato e, ove non sia possibile questo, crearci omologhi e surrogati della fisiologica vita tradizionale.
Io definisco surrogato il ripristino in chiave moderna d’un ambiente, comportamento o stile di vita arcaico ancor oggi desiderabile ma non più attuabile: cercare di vivere più possibile immersi nella natura, fare attività motoria, esercitarsi in abilità manuali, instaurare rapporti umani sinceri e profondi con le persone son tutti esempi di surrogati benefici della vita ancestrale che ci ha plasmato così come ancor oggi siamo. A proposito di rapporti sociali, la rete di contatti virtuali tramite telefono e internet sono un tipico surrogato dei rapporti sociali reali: una volta, nel lavoro e nello svago si stava in gruppo  scambiandosi spesso la parola mentre oggi mancando questo le persone cercano di camminare nella vita col conforto di tenersi per mano attraverso i social network.
Le cose, per ora, vanno così ma meglio sarebbe riuscire, con uno sforzo comune, a riappropriarci di una società più umana dove rinasca la convivialità perduta: i surrogati vanno accettati solo dove non è più ripristinabile l’autentico ma dobbiamo sempre tenere vivo dentro di noi l’ideale di unire il buono di oggi con quello di ieri.
Ci sono poi situazioni, pulsioni, desideri e comportamenti arcaici oggi inaccettabili o non desiderabili che continuano tuttavia ad urgere dentro di noi: l’aggressività verso i nostri simili, la violenza, la guerra, il bisogno di ferire e sopraffare i più deboli. In tali casi è necessario trovare omologhi comportamentali in grado di dirottare l’energia aggressiva verso imprese edificanti: la dedizione alla cultura mitiga gli istinti aggressivi e soddisfa il desiderio di novità mentre nell’amore tra uomo e donna si sfogano senza violenza molti istinti primordiali. Il lavoro fisico e lo sport possono inoltre mitigare l’aggressività fisica.
Ogni nostro comportamento è dunque fonte di benessere e armonia solo se ricalca un comportamento atavico oppure ne è omologo o surrogato; abituiamoci pertanto nel corso della nostra balorda vita moderna a riflettere, chiedendoci: a quale comportamento atavico può essere assimilato ciò che sto facendo? Pur essendo formalmente diverso fa vibrare ugualmente le antiche corde dell’anima?
Se abbiamo vissuto liberi nelle foreste per centinaia di migliaia d’anni e siamo stati agricoltori o artigiani per altri diecimila è ovvio che  il nostro cuore tenda a battere ancora quei ritmi; se abbiamo centinaia di muscoli guizzanti e le nostre mani sono meravigliosi strumenti creativi non possiamo  reprimere la nostra atavica necessità di muoverci e creare manufatti.
Quindi, soprattutto se facciamo un lavoro cerebrale e astratto, dedichiamo parte del nostro tempo libero a passeggiate contemplative senza meta, a  piccoli lavori di  giardinaggio anche casalinghi o a lavoretti manuali da compiere nei nostri pur striminziti e poco adatti appartamenti fregandocene di quel pò di sporco che produciamo: ben vengano a rallegrare le nostre case tracce di terra e polvere, i detersivi sono assai più tristi e tossici.
Ci sono oggi molte cose radicalmente nuove che non hanno analogia con situazioni tradizionali e vanno quindi approcciate con prudenza: è difficile intravvedere omologhi e surrogati nell’eccesso di immagini fotografiche, nella valanga di notizie da tutto il mondo sotto le quali veniamo ogni giorno seppelliti, nella luce elettrica che prolunga artificialmente le nostre giornate, nello stile di vita caricaturale dell’homo faber occidentale e nella globalizzazione che mescola razze provenienti dai cinque continenti dentro il calderone di un ambiente standardizzato.
E così la nostra diffusa sedentarietà non ha uguali nelle epoche passate quando vi ci era costretto solo l’uomo malato ed è inedito l’attuale eccesso continuo di cibo o la possibilità di vivere una vita artificiale incollati allo schermo di un computer.
Se vogliamo dunque ritrovare un’armonia e una serenità perdute dobbiamo praticare un’auto-osservazione critica per vagliare e correggere i nostri comportamenti  adattandoli a ritmi e modi tradizionali, quindi consoni alla natura umana. Non ci sono più le tradizioni a guidarci quindi  la cultura personale è oggi indispensabile: parlo di cultura autentica, espressione di amore per il sapere e non di cultura come strumento di potere acquisito  con disgusto solo per fregare meglio il prossimo.

Note
Lorenz, Il declino dell’uomo, tr. It. Mondadori, Milano 1991, pp. 123-124, 173.

Gioco d’azzardo: è malattia?

Cari lettori, riporto qui sotto la lettera che “Il Gazzettino” mi ha pubblicato in data 18 ottobre 2018. Puo sembrare un pò dura nei confronti di chi gioca d’azzardo ma in me non c’è alcun intento colpevolizzante del giocatore bensì un richiamo alla realtà per chi cerca di speculare sulle malattie o pseudo malattie trasformando fenomeni comuni e sempre esistiti in allarmanti, nuove epidemie emergenti. La scintilla per l’articolo è nata quando ho letto che sta nascendo un centro dove si cureranno i giocatori d’azzardo con la neuropsicologia e le neuroscienze: a mio pare, la complessità della pulsione al gioco d’azzardo non è riconducibile ad una determinata configurazione neurobiologica costante, passibile di essere studiata e curata con le neuroscienze ma è un problema più profondo, di personalità, con molti addentellati anche nel sociale, un problema umanistico più che scientifico.  

E riguardo alla psichiatria americana che spezzetta le malattie psichiatriche per crearne di nuove e fasulle, al servizio di un’industria farmaceutica pronta poi a vendere nuove molecole per “curarle”, vi invito a leggere il mio precedente articolo “Psichiatria americana”  (cliccare)

Sono delirante io oppure è vero quel che dico?  Continua a leggere

Perchè detesto la globalizzazione

Io, anche come psicoterapeuta, sono convinto che la strada giusta per tornare a vivere in modo più naturale e quindi più felice, sia rilocalizzare, all’opposto cioè del globalizzare.

L’essere umano infatti ha da sempre avuto un proprio territorio limitato in cui vivere, in modo assoluto almeno da 13 mila anni a questa parte (da quando cioè è diventato stanziale); Continua a leggere

Amore per la Croazia

Io amo molto la Croazia e, appena posso ci vado. Mi piace la sua bellezza naturale non eccessivamente inquinata dalla presenza umana; la densità di popolazione in Croazia è infatti molto bassa, appena di 75 abitanti per km/q mentre in Italia, che è rovinata dall’antropizzazione eccessiva è in media di 200, quasi 3 volte tanto.

Mi piace poi il carattere della gente che sa godere di quello che ha oggi, sa accontentarsi e ha forte il senso dell’amiciza.

I croati amano il proprio paese, sono orgogliosi di essere croati, accettano un regolato e rispettoso turismo ma non si fanno adulatori per incentivarlo.

La ragazze, lavoratrici e fiere, non si lasciano affascinare dallo straniero occidentale ricco ma sono fortemente attratte dalle qualità dei compaesani: forza, virilità, apertura sociale, individualismo moderato che non scivola nella pusillanime autoprotezione, nel narcisismo e nella ripiegatura egoistica sul proprio meschino orticello personale di affarucci e salute.

Qui le lascive mode occidentali sono poco simpatiche, le droghe sono ancora quelle dei propri bisnonni: vino, tabacco e caffè; la vita sociale è fatta di incontri occhi negli occhi e non di “social networks”; non c’è simpatia per la confusione di genere e ruoli sessuali ma c’è la sana e istintiva convinzione che i modelli tradizionali di uomo e di donna sono quelli psicologicamente e sessualmente più attraenti e vincenti; la società croata accetta l’esistenza delle minoranze e le rispetta ma pretende che, in quanto minoranze, non intacchino i diritti della maggioranza.

La Croazia è una Nazione che ha una storia contrassegnata da lunghi periodi di autonomia ben gestita, è un Paese forte e fiero che non ha bisogno di promiscuità, annacquamenti e globalizzazioni; la gente del posto, di ogni età, è favorevole all’autonomia e contenta d’avere ancora la propria moneta e le frontiere coi gendarmi e spera che i tentativi della Slovenia di espellerla dall’Unione Europea, siano coronati da successo.

Angelo Mercuri

Scientismo & Tecnocrazia

In questi ultimi giorni ho seguito una lezione di psichiatria biologica dove i relatori illustravano le ultime scoperte nel campo delle neuroscienze applicate alla psichiatria; cose belle e affascinanti, da sapere: il cervello dell’ adolescente è ancora strutturalmente immaturo, l’insonnia, la depressione, la solitudine, provocano evidenti modificazioni materiali del cervello. Inoltre si è discusso di epigenetica, quella branca della genetica che studia le modificazioni reversibili cui il nostro DNA va incontro in seguito all’esperienza (ambiente, circostanze di vita); la cosa più sorprendente è che tali modificazioni del DNA sono trasmissibili alla prole: se una madre è depressa durante la gestazione, trasmette al figlio per via genetica la tendenza ad ammalarsi a sua volta di depressione.

Ancora, si è parlato di longevità  e delle cause di invecchiamento precoce.

Quello che mi ha colpito di più però, è stata la conclusione degli scienziati: per mantenersi sani a lungo, bisogna fare una vita sana e tradizionale: dal grafico proiettato hanno evidenziato come il benessere suddetto sia inversamente proporzionale alla modernizzazione; studiando gli ultracentenari ad esempio si è visto come questi sono solitamente contadini abituati ad alzarsi prestissimo al mattino e a fare una vita di lavoro fisico in un ambiente naturale. E la mia conclusione è stata un’ulteriore conferma di quanto già penso da tempo: le malattie mentali oggi sono enormemente aumentate a causa di un ambiente ed uno stile di vita artificiale rovinoso per la salute mentale.

Se soffrite di disturbi mentali, ricordatevi che molto probabilmente non siete malati voi ma è malato lo stile di vita innaturale che vi costringono ad avere: non mandate giù pillole ma reagite, ribellatevi con rabbia (in modo non violento ma costruttivo, sia chiaro!) contro una società costruita sull’interesse economico e governata da pochi grandi industriali. Ricordate che la potenza, a questi, siamo noi a darla comperando i loro squallidi prodotti e noi stessi potremmo togliergliela. Riflettete su questo punto e su altri, formatevi ideali e convinzioni, non fatevi ridurre a malati mentali da una società che spreca la maggior parte delle risorse economiche in inutili ricerche scientifiche e in dannose applicazioni tecnologiche per allontanarvi sempre più dallo stile di vita unico possibile per la felicità vostra e dei vostri figli: quello tradizionale. Anche gli scienziati lo dicono, dopo decenni di ricerche e miliardi spesi per arrivare dove il buon senso era già arrivato da secoli.

Angelo Mercuri