“La mite” di Fëdor Dostoevskij
«Capii che era buona e mite. Le persone buone e miti non resistono mai per molto tempo; non si aprono subito, è vero, ma nemmeno sanno sottrarsi a una conversazione: agli inizi rispondono misurando le parole, e tuttavia rispondono, e più si va avanti più si lasciano andare, bisogna solo non stancarsi di aspettare, se si vuole sapere qualcosa.»
Fëdor Dostoevskij, La mite, 1876
La mite apparve nel 1876 sulla rivista Diario di uno scrittore, dello stesso Dostoevskij. Racconto fantastico, lo definì il suo autore, ma fantastico solo nella forma letteraria: non un racconto vero e proprio né uno scritto in forma di memorie, ma una sorta di monologo, quasi come se lo scrittore avesse rielaborato i pensieri ad alta voce del protagonista dagli appunti di un ipotetico e fedele stenografo.
Una giovane donna si uccide gettandosi da un balcone stringendo al petto un’icona. Il marito, davanti al corpo della moglie, non sa darsi una spiegazione di quel che è successo. Ripercorre la sua storia, dal momento in cui l’ha conosciuta, giovanissima e poverissima orfana, alla richiesta di matrimonio, alla vita coniugale e al suo deteriorarsi; fino alla morte cercata dalla donna. È davvero stato il suo benefattore? È solo lei la colpevole? Davvero non ha nulla di cui rimproverarsi? Oppure, forse, questo matrimonio senza amore e senza affetto è in parte la causa del gesto della ragazza?
Di lei non sappiamo quasi nulla, tranne che era mite (a parte qualche breve lampo di orgoglio e ribellione), e disperata. Qualche slancio d’affetto, un illuminarsi degli occhi, una smorfia sul viso, una canzoncina che amava cantare… Del marito conosciamo meglio la storia: messo ai margini dalla società, vive tenendo un banco dei pegni. Sogna un ritrovato benessere ed un riscatto, e di essere compreso ed amato; ma non deve essere lui a dare spiegazioni, vuole che lei indovini e comprenda il suo mondo interiore, nonostante i silenzi, nonostante la severità. Non è un uomo crudele e neanche un uomo privo del tutto di sensibilità, ma allora perché tanta sistematica manipolazione, tanto esercizio di potere? Il totale e profondo rispetto che esige dalla moglie è un surrogato del rispetto che ha smarrito in società? Quanta parte di consapevolezza raggiungerà l’uomo alla fine del racconto Dostoevskij non lo chiarisce, né, al solito, concede ai lettori una semplice spiegazione.
La vicenda vera di un suicidio ‘religioso’ ispirò allo scrittore il racconto. Che una persona religiosa scegliesse di togliersi la vita, pregando, stringendo un’icona, non aveva dato pace al credente Dostoevskij: risultato di tanto tormento questo splendido racconto.
Anna Gandolfo
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